Tuesday, October 31, 2017

Cloverfield - Rigurgiti iconogastrici

CLOVERFIELD

RIGURGITI ICONOGASTRICI

recensione di Alessandro Fantini 

 

   


    Fedele ai dogmi del “meticciato” linguistico applicati nel rodatissimo e altrettanto logoro "Lost" (survival-tv movie di matrice seriale che deve gran parte del proprio successo all’astuto abbattimento dei confini tra cinema, docu-fiction e reality),  questo “Cloverfield”, ennesima "creatura" cinematografica del produttore J.J.Abrams diretta da Matt Reeves, mira tuttavia a compiere il percorso inverso attingendo stavolta dal lessico di quel vernacolo mediatico che negli ultimi quindici anni ha metabolizzato il codice espressivo del reportage televisivo nella "liofilizzazione" amatoriale dei video girati da camcorder e telefonini "sversati" sulla rete, per trasferirne il prodotto finale sul grande schermo ingigantito ed esasperato dai “mirabilia” degli effetti speciali. Non solo negli interminabili ed angosciosi piani sequenza peristaltici della televisione post "11 settembre" va ricercato l'elemento di maggior seduzione del progetto, quanto piuttosto nell'astuzia citazionistica, già ricodificata dal “bullet time” di “Matrix” e dilapidata nella penosa conversione cinematografica dello sparatutto in prima persona di “Doom”, di quelle nuove modalità di fruizione interattiva di cui la dimensione videoludica deflagrata con la pandemia delle consoles ha testimoniato l'ineludibile fascinazione.
 Ecco quindi che i riferimenti apparenti allo stentato “Blair Witch Project” di Myrick e Sanchez appaiono pretestuosi e surrettizi nella misura in cui la parentela putativa di Cloverfield si limita al recupero dell'espediente narrativo del casuale recupero dei videotapes degli scomparsi (deformazione stilistica sopravvissuta fino ai nostri giorni con la serie “REC” e il più recente “VHS”), e sulla ripresa su larga scala del viral maketing inoculato via web che all'epoca ne aveva amplificato immeritatamente le proprietà rivoluzionarie nell'assegnazione del principio di realtà a materiali grezzamente fittizi (strategia di depistaggio testata sin dai tempi di “The Texas Chainsaw Massacre” del 1974, opera low-budget spacciata per ricostruzione documentaria di efferati delitti realmente accaduti, sebbene in verità liberamente ispirata alle gesta necrofiliche di Ed Gein).
Più stimolante e provocatorio sarebbe invece l'accostamento con gli esiti radicalmente opposti del "perpetuo maremoto" ottenuto dalla tecnica della camera in spalla portata al suo acme ne "Le Onde del Destino" di Lars Von Trier.
Poco o nulla c'importa del mastodontico umanoide rettiliforme e anfibio che, senza alcun evidente motivo, scatena la sua furia da elefante impazzito tra i pinnacoli di vetro e cemento di una Manhattan notturna fotografata come la città morta di un incubo al neon. Né tanto meno c'interessa parteggiare o partecipare del terrore simulato con approssimazione da situation comedy che muove l'erratica fuga dei ragazzi “demi-monde” che, fin dal risibile pseudo-reality dei venti minuti introduttivi, sfilano davanti all'operatore professionalmente incompetente senza conferire alcun guizzo di personalità ad un'irritante bidimensionalità che li renderà simpatici solo al momento di essere spazzati via dal cataclisma liberatorio che investe la città. Quel che decuplica e confonde le reazioni dello spettatore, continuamente oblique tra nausea, vomito, noia, tensione, perplessità, apprensione, curiosità infantile, è piuttosto la maniacale opera di celebrazione del pretesto visivo che sposta sistematicamente il fuoco della persuasione dal campo della verosimiglianza dei personaggi e della trama, a quella della grammatica estetica spinta a vertici mai raggiunti fino ad allora dal medium audiovisivo.


Basteranno difatti la defezione assoluta del commento musicale a favore di una raggelante sinfonia di urla, sibili e suoni ambientali che contribuisce all'immersività soggettivizzante della visione (proprio come accade in videogiochi quali "Silent Hill 2", "Doom 3" e soprattutto “Amnesia: The Dark Descent”), spiazzando il cinefilo abituato ad accettare l'astrazione di quel coefficiente espressivo di carattere extradiegetico che per convenzione conferirebbe all'opera la sua rassicurante omogeneità artistica; la soluzione tanto ingenua quanto riuscita di ricorrere ad un “flash back” intenzionalmente involontario presentando l'intero filmato come il risultato di un maldestro montaggio in camera compiuto sovrascrivendo per errore un nastro sul quale la coppia di amanti aveva filmato una giornata di melense idillio amoroso (nei cui fotogrammi superstiti si annidano dei “clues", indizi criptati che alludono alle origini della creatura come in un gioco d'avventura); la destrezza del reparto addetto al CGI che fa dell'audace smania di fotorealismo la struttura portante dell'intero progetto, misurandosi con i ripetuti fuori fuoco del settaggio automatico della telecamera modello consumer ad alta definizione che imprime un drammatico tono da reportage di guerra alle prime esplosioni che squarciano la “skyline” di Manhattan e al lancio della testa della Statua della Libertà rotolante tra le macchine parcheggiate in strada (citazione stucchevole ma visivamente efficace dalla locandina del carpenteriano “1997: Fuga da New York”).
Basteranno tutti questi minuziosi congegni stilistici dissimulati (e dissimulanti) sparsi lungo i settanta minuti del lungometraggio, a rendere trascurabile l'ennesimo trafugamento di quegli stilemi archetipizzati dalle saghe di “Alien”, “Predator”, dei disaster movies come “Trappola di cristallo”, “Deep Impact”, “The Day After Tomorrow” e da quella imprescindibile di “Godzilla” della quale si propone di essere il contraltare mitologico in chiave americana.
Sebbene non si tratti dello spazio siderale in cui fluttua la Nostromo di Ripley, ma della più “iconografizzata” metropoli del pianeta, anche in questo caso nessuno potrà “sentirvi urlare”. Specie se per pochi istanti condividerete la visita alle fauci del ciclopico intruso prima che quest'ultimo sputi videocamera ed operatore in un impulso di geniale deiezione mediatica. Forse la più efficace allegoria di un'epoca che ingoia e vomita le immagini ancor prima di digerirle, trattenendo solo quel tanto necessario ad alimentare il diafano terrore che per loro natura i mass media continueranno a inoculare nell'immaginario collettivo.

Saturday, October 14, 2017

Shining Blade: La lama che luccica



La lama che luccica

Semiografia del chiasmo visivo tra Shining e Blade Runner
di Alessandro Fantini



Alessandro Fantini, Memories of Dreams, oil on canvas, 50x70 cm. (2007)

      Se la mitologia romana riconosceva nei due volti del dio Giano, l’uno rivolto verso il passato, l’altro verso il futuro, il traslato della natura relativa del tempo, la mitologia cinematografica potrebbe ascrivere a due opere iridate dell’ultimo trentennio gli stessi sguardi pre e retroveggenti: “Shining” ultimato da Stanley Kubrick nel 1980, e “Blade Runner” di Ridley Scott proiettato nelle sale due anni dopo. Alle visioni di atrocità anteriori e posteriori catturate nell’Overlook hotel dall’occhio interiore del piccolo Danny, corrisponde idealmente la luccicanza degli occhi dei replicanti fuggiaschi smarriti in un futuro mutilato di qualsiasi aspettativa di vita umana. Non solo: oltre al tema della percezione paranoica della realtà e ad una comune discendenza da opere letterarie (l’omonimo romanzo di Stephen King del 1976 e “Do androids dream of electric sheep?” di Philip K. Dick del 1968), anche l’intervallo di tempo che intercorre tra la produzione dei due film potrebbe dirsi sintomatico di una complicità elettiva per certi versi “subconscia”, e per questo ancor più rivelatrice sotto l’aspetto delle affinità concettuali e semiotiche. A cavallo di questo biennio il panorama del cinema internazionale si vede difatti assediato da titoli come “The Thing”, “E.T”., “The Dark Crystal”, “The elephant man”, “Flash Gordon”, “Excalibur”, film che vanno a coprire quella gamma di generi che si estende dall’horror al fantasy e alla fantascienza, passando attraverso quei nuovi tentativi di contaminazione tra l’ultima e la prima come quella osata dall’opera carpenteriana, la cui strada era già stata spianata con successo dallo stesso Scott nel 1979 con “Alien”, raffinato cross-over tra slasher-movie, gothic horror e sci-fi. 
Sia “Shining” che “Blade Runner” possono considerarsi a buon diritto saldamente radicati in quel passato totemico formalizzato nei decenni precedenti dai capostipiti del genere come “Metropolis” e “Nosferatu”, dai film della Hammer, dal noir di marca chandleriana, dalla fantascienza godardiana di “Alphaville”, alla più recente (seppur ingenua) distopia di “Logan’s Run”. Ma al contempo, quanto più a fondo le loro radici s’immergono in questo consolidato patrimonio filmico-letterario, tanto più i loro rami ne traggono linfa per protendersi in alto, istoriando e innervando nuovi cieli iconologici sotto i quali, fino ad oggi, una moltitudine di film ha, più o meno consapevolmente e con alterna fortuna, trovato riparo.


    Entrambi custodiscono già nei titoli il folgorante indizio della propria portata teoretica e visiva. Non a caso la “luccicanza” e, letteralmente, “colui che corre sulla lama”, rinviano ad analoghe aree semantiche. La lama per sua natura inerisce ad un oggetto tagliente in grado di riflettere la luce che proviene dall’esterno, mentre la luccicanza presuppone l’esistenza di una fonte imprecisabile o distante, in qualche modo anch’essa minacciosa, che la propaghi. Tuttavia, a differenza di Kubrick che aveva ben compreso l’importanza di preservare quello adottato da Stephen King al momento di procedere all’adattamento cinematografico del suo romanzo, nelle intenzioni programmatiche degli sceneggiatori e del regista il titolo “Blade Runner”, ancor prima di diventare quello ufficiale, non doveva servire che a fornire allo script un identificativo più specifico dei precedenti “Mechano” e “Dangerous Days” proposti dallo sceneggiatore Hampton Fancher in alternativa al pressoché impronunciabile quanto sardonico “Gli androidi sognano le pecore elettriche?” di Dick, venendo quindi adottato in via provvisoria dopo che la produzione ne acquisì i diritti d’uso da William Burroughs che lo aveva  ideato per il suo libro “Blade Runner: a movie”.
Nonostante quest’ultimo dato non sembri avallare la tesi di una scelta mirata, Ridley Scott ammise nondimeno d’aver apprezzato da subito l’eufonia e la suggestione verbale di quel participio tanto calzante al soggetto del film: la ricerca, l’inseguimento e il “ritiro” dei Nexus 6, replicanti più umani degli umani in quanto indistinguibili da questi ultimi se non in virtù della forza e dall’intelligenza di per sé, appunto, sovrumani.
 In entrambi i film, l’inciso visivo della luce riflessa, indagata, manipolata, deformata, vissuta, asservita alle più diverse esigenze drammatiche, rappresenta un “brillante fil rouge” che rende ancor più sensato l’assunto di fondo di una comune disposizione ad esplorare nuovi territori estetici del concept “cinegrafico”.
L’epopea della luce viene qui narrata attraverso un serrato quanto euritmico impianto di antinomie che si amplificano ad abbracciare un vasto spettro di contrappunti semiotici. Ecco dispiegarsi dunque una teoria di antinomie linguistiche, gestuali, fisiognomiche, prossemiche, spaziali, temporali, tutte filiate da quella iniziale alla quale il processo visivo è maggiormente suscettibile, risolte nei due film con un’arguzia tecnica che sugli assunti condivisi permette ai due registi di erigere articolate architetture di significanti.


 Antinomia della luce: in “Shining” si articola sul rovesciamento sistemico dei cliché che impongono ad un film di genere di ottemperare a determinate routine di regia, figure topiche, paradigmi narrativi e scenografici. Quand’anche sia ingeneroso confinare il cinema di Kubrick nella sconfinata riserva indiana del “genere”, si dovrà riconoscere come sia proprio nel terreno fertile benché brullo di quest’ultima che il regista, dal suo esordio con il l’esistenzialismo militare di “Fear and Desire” al mystery erotico di “Eyes wide shut”, ha sempre scavato per rinvenire quel serbatoio di archetipi che travalicano la nozione stessa del fare cinema. Non il buio o l’ombra, ma la luce, e con essa le tinte che arroventa di vivida terribilità, si fa sorgente di epifanie incorporee e orrori materici.
Il terrore, comunemente coniugato all’indistinto, all’indefinito, indecidibile, imponderabile, preannunciato nel prologo dal biancore dell’asettico appartamento della famiglia Torrance (ancora più incombente nella scena della visita della dottoressa  nella camera di Danny, tagliata nella versione europea), nell’Overlook hotel si sprigiona invece dalla linda purezza geometrica dei corridoi, dall’immacolata funzionalità della cucina e dal candore  della dispensa, “albedo” (bianchezza) che si fa sempre più insostenibile e onnipervasivo all’approssimarsi del  climax apparentemente risolutivo. Inondati da un lucore da sala operatoria o da mattatoio, dal rosso vermiglione dell’esondazione di sangue che erompe dagli interstizi dell’ascensore, questi serici spazi si tramutano presto nelle corsie traslucenti dell’oscura psicosi labirintica in cui la famiglia Torrance sprofonda in misura inversamente proporzionale all’accumularsi esterno del bianco assoluto della neve, corrispettivo della fusione e dell’annientamento di tutte le cromie, e quindi di tutto ciò che ancora conferisce una razionalità sensoriale alla loro realtà condivisa.  
 L’acme psico-cromatico di questa escalation coincide con la rivelazione dell’ospite della camera 237, dove Jack Nicholson-Torrance assiste alla terza manifestazione antropomorfa del “cauchemar” che infesta l’hotel (dopo quelle più subdole e rassicuranti incarnate da Lloyd e Delbert Grady) dietro le cortine della vasca scostate dall’eburneo fantasma erotico, mentre il lividore verdastro delle pareti del bagno preconizzano le carni, frolle e muffite nell’acqua della vasca, del cadavere scoperto poco prima da Danny, nel quale la donna abbarbicata lascivamente al corpo di Jack si tramuterà nello specchio, modulo di ribaltamento demoniaco tipico della cultura figurativa medioevale, in cui la “vanitas” viene punita dalla rappresentazione mortifera della putrescenza corporea. 
Alla resa intensamente calibrata della visione concorre una luce anodina riflessa dal basso che scava con esiti grotteschi le rughe di Jack in preda ad una sorta di diabolica “erezione” facciale. Priapismo mefistofelico che rimanda al lungo piano sequenza di una scena precedente in cui lo stesso ci viene mostrato assorto davanti ad una delle finestre della hall, rappreso in una catatonia ectoplasmica analoga a quella dell’autoritratto con arto scheletrico di Edvard Munch del 1895, prefigurazione dell’identità “oltretombale” del personaggio che verrà sagacemente adombrata nella foto di gruppo del finale.

A loro volta in “Blade Runner” gli interni della Tyrell corporation fungono da espressione finemente equivoca di quella seduzione erogena esercitata dalla luce combattuta ed empatizzata, come la si può osservare nelle ultime tele di Caravaggio (in particolare “La Resurrezione di Lazzaro”) e dei suoi “epigoni olandesi” Pieter de Hoc e Emanuel de Witte; sulle superfici lustre ed uniformi dell’enorme tavolo sul quale si svolge il test-duello tra Deckard e Rachel, dei busti neoclassici e delle aquile di bronzo, sbalzati in iridescenti mezzitoni su fondali campiti dall’ocra elettrico  della vetrata panoramica irradiata dalla plumbea luce solare che divampa tra le “ziggurat” ipertecnologiche innalzate sull’orizzonte urbano. Immagine, quest’ultima, dai connotati simbolici prossimi a quelli dell’occhio luminoso contenuto nel triangolo, rappresentazione del “Culto della Ragione” o “Essere Supremo”, codificata al culmine del processo di scristianizzazione operata dalla rivoluzione francese tra il 1792 e il 1794, ma che in questo caso sembra rimarcare in “controluce” la laica sacralità della posizione di egemonia tecnocratica ricoperta dalla corporazione di Eldon Tyrell, “Saturno-demiurgo” che non si fa scrupoli nel manipolare le anime artificiali dei suoi figli tramite l’impianto di ricordi fittizi, per poi “divorarne” l’umanità prodotta da questi “cuscini emotivi” conferendo loro una data di scadenza industriale (ossia una durata di 4 anni).

 Le possenti colonne quadrangolari solcate da fughe orizzontali, indicatori di un gelido ritmo morfologico dotato di un “analogon” caratteriale nella prima apparizione azzimata e formale di Rachel e Tyrell, così come l’attillato completo nero della prima e la giacca blu con papillon bianco indossata dal secondo, versione speculare a quella rossa indossata in “Shining” dallo stesso attore Joe Turkell nel ruolo di Lloyd, agiscono da toni assorbenti delle luminosità calde e ingannevolmente pacificanti dello studio, rinvigorendo quell’aura di aristocratica ambiguità che circonda i due personaggi. In tal senso non è di secondaria importanza che in una delle revisioni alle quali la sceneggiatura fu sottoposta, anche Tyrell avrebbe dovuto essere il replicante del vero se stesso ibernato in una cripta criogenica collocata al centro della piramide, accorgimento visivamente congeniale alla qualità “cultuale” e “divinizzante” dell’edificio, che avrebbe messo in luce un ulteriore fase problematica di accezione cartesiana nonché rivelato un debito nei confronti di “Ubik”, romanzo di Dick pubblicato solo un anno dopo “Do androids dream of electric sheep?”, in cui i protagonisti agiscono in un mondo virtuale inconsapevoli del fatto che i loro corpi si trovino in realtà in uno stato di morte sospesa.
   Che la scelta per le riprese esterne dell’Overlook sia ricaduta proprio sul Timberline Lodge, hotel costruito a 1817 metri d’altezza sul Monte Hood nell’Oregon piuttosto che sullo Stanley Hotel del Colorado in cui King scrisse e ambientò il romanzo, potrebbe perciò non essere stato solo l’esito di una felice congiuntura tra esigenze scenografiche e  disponibilità tecniche bensì, tenendo conto della parossistica cura per i dettagli propria di Kubrick, la conseguenza della volontà di evidenziare il sottotesto “cultuale” e “metafisico” del film, appena accennato dal direttore Ullman quando riferisce a Jack che l’hotel sarebbe stato eretto su un cimitero indiano. Basterebbe questo per rendere ancor più significativa l’affinità simbolico-strutturale tra il teatro degli eventi sanguinari di “Shining”, e il luogo in cui vengono creati i replicanti e dove il loro creatore trova la morte nella Los Angeles di “Blade Runner”. Tanto il complesso della Tyrell corporation quanto quello dell’Overlook hotel presentano in effetti soluzioni architettoniche piramidali e semipiramidali tipiche delle ziggurat e dei templi aztechi. 


Sin dal primo momento in cui vengono inquadrati nel film, questi ambienti, nella perfetta consustanzialità di forma e contenuto, preludiano alla “celebrazione” di atti pseudosacrificali compiuti nel nome di vendicative entità oltremondane o di un metaforico “dio della biomeccanica”: Jack muore congelato nel labirinto dopo aver ammazzato nell’hotel il cuoco Halloran (l’unico “boogey man” della storia,  depositario dello “shining” che si sacrifica per consentire a Danny e Wendy di fuggire con il suo gatto delle nevi), allo stesso modo in cui Roy Batty esala il suo ultimo respiro sul tetto del Bradbury Building avendo ormai raggiunto la sua data di termine,  dopo aver ucciso il dr.Tyrell (inerme dottor Frankenstein) all’interno del suo palazzo.
   I candelabri disseminati nella camera da letto di quest’ultimo, anacronistici evocatori di una “stimmung” promiscuamente ieratica che converte le sale della corporazione in immensi transetti di un santuario cristiano-pagano nello stile del Tempio Malatestiano, si fanno erogatori di una luce vibrante di baroccheggianti tormenti atmosferici, funzionali alla significazione della natura artificiosa e latamente “sacrilega” del lavoro presieduto da Tyrell. Un ulteriore referente concettuale e visivo per il motivo del candelabro va rintracciato nel quadro di Jan Van Eyck  “I coniugi Arnolfini”, del cui specchio circolare in cui il pittore occulta il proprio riflesso, il regista si è effettivamente servito come modello (insieme a “Interno con donna alla spinetta” di de Witte e “Una donna e due gentiluomini” di Vermeer) per la composizione della fotografia tridimensionale di Leon che Deckard scansiona nel computer Esper rinvenendovi la figura della replicante Zhora, a sua volta incastonata in uno specchio nascosto.  

Ma se nel quadro di Van Eyck l’unica candela accesa è segno della fedeltà coniugale (alla stregua del cane e l’angelo intagliato nella testata del letto) nella camera di Tyrell le fiammelle simboleggiano la cruenta infedeltà del padre verso i propri figli e di questi ultimi nei confronti del primo, in quanto destinati ad una morte programmata e disumanizzante alla quale tentano invano di opporsi (non è quella metafora pronunciata da Tyrell circa la brevità della vita di Roy Batty assimilata ad una candela che si spegne più in fretta perché accesa da ambo le estremità, una conferma del valore “medianico” dei candelabri?).
   Anche il gufo dagli occhi lampeggianti (quasi una sorta di silente evoluzione zoomorfa del monocolo rosso del kubrickiano elaboratore HAL 9000) viene ad assumere un illuminante ruolo semiotico dal momento che gli strigidi, uccelli rapaci dalle abitudini notturne, sono stati per lungo tempo considerati servitori delle streghe e della Morte e qui, nella fattispecie, considerata l’efferata scena in cui è testimone dell’accecamento del padre Tyrell-Ulisse-Laio da parte del figlio Roy-Telemaco-Edipo, della Morte Seriale.
Al contrario in “Shining”, nell’unico dialogo che ha luogo tra Jack e Danny prima che abbia inizio la spirale di fenomeni allucinatori e/o sovrannaturali, in una camera da letto più domestica e modesta di quella di Tyrell, l’interazione tra padre e figlio non culmina in un inconsulto impeto parricida, ma traduce in una serie di sintagmi spaziali e preverbali quella dialettica che li definisce come “dramatis personae”, configurandoli in potenza come cacciatore e preda. 


Danny si avvicina esitante al padre seduto sul letto solo dietro i suoi ripetuti inviti scanditi dal movimento indolente del braccio: l’intero della sua figura emaciata riflesso nello specchio è la prima forma di “replicazione” subita dal personaggio di Jack che, dopo aver fatto sedere il figlio sulle gambe, si abbandona ad una cantilena dialogica intercalata dalla replicazioni di frasi e parole, fino quell’inquietante anafora esclamativa “sempre e sempre e sempre” che suona quasi come il sigillo alla sua identità di eterno inquilino dell’Overlook hotel, come appunto la sua presenza nella foto d’epoca mostrata nel finale sembra suggerire. In un infernale ciclo partenogenetico, Jack è condannato a “replicarsi” in un “samsara behavioristico” che lo vede ripetere all’infinito gesti e parole riassumendo ogni volta lo stesso ruolo (“è sempre stato lei il custode” gli conferma infatti Delbert Grady in quella che può considerarsi la sequenza madre del film) fino alla proliferazione paranoica dell’ego certificata dalle centinaia di fogli crivellati dalla stessa frase “All work and no play makes Jack a dull boy”.
  Anche il primo incontro-scontro tra Deckard e la replicante “inconsapevole” Rachel si esplica sulla base di una complessa trama di enunciati visivi e gestuali. Prima ancora che nella foto di Leon e nell’appartamento di Sebastian, in “Blade Runner” le definizioni luministiche acquistano una loro pregnanza pittorica nella scena sovraccarica di sospensioni ed ellissi narrative del test Voight-Kampff: la sintassi iconografica possiede la meditata misura di una drammatizzazione futuristica della “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio, ridotta nel numero dei personaggi e lievemente variata nella loro disposizione.
Mediante l’analisi di questo allestimento scenico è possibile stimare al meglio la verve caravaggesca di Scott (che ritornerà in maniera ancor più teatrale nel successivo fantasy “Legend”), sensibilità che gli permette di aggiornare l’accorgimento atmosferico applicato dal Merisi grazie alla sua trasposizione formale nell’uso della fotografia in chiave bassa, il “low key”, sistema di distribuzione selettivo della luce su fondi scuri (in voga ai tempi del cinema espressionista degli anni venti) al quale un regista non penserebbe più di ricorrere dopo l’innovazione della pellicola a colore, se non avesse a cuore quella correlazione oggettiva tra clima mentale e tensione pulviscolare che sostanzia la fabula visiva di tutto il film.
  Come la coscienza angosciante della snaturata caducità rende complici sia i presunti replicanti che gli stessi cacciatori passibili del sospetto d’essere stritolati nel sistema reificante della società del 2019 che fa idealmente capo all’industria della Tyrell (l’inserzione dell’immagine eidetica dell’unicorno nel finale del director’s cut del 1992 tramuta il sospetto in una biunivoca verità non scevra di tragiche implicazioni metafisiche), così è l’oscurità a vantare una propria superiorità rispetto alla luce, disponendosi con la sua sovrasaturazione a traslitterare la temperie alienante che avviluppa la vicenda strutturata nella forma di un vertiginoso albero binario. Sarà comunque lecito considerare il virtuosismo caravaggesco una sorta di protasi secolare al low key solo se ripensato nei termini  ricontestualizzanti ai quali l’ha destinata il direttore della fotografia Jordan Cronenweth (che non a caso definì quella del test di Rachel la scena più riuscita del film) ossia nella funzione di un linguaggio ottico assurto ad attore organico al tessuto narrativo, nell’adesione al magistero masaccesco che rivive nella pittura di Caravaggio, quello della “Historia Figurata”, in virtù della quale la luce viene “declinata” nella ricomposizione di un’esperienza sovramentale trasferita nella porosa concrezione del quotidiano. 

  Organismi artistici a vocazione metafilmica qualificati dall’incessante ricombinazione del loro codice iconogenetico, nel corso degli anni i film di Kubrick e Scott hanno tracciato, grazie al fenomeno evolutivo delle varianti dei director’s cuts (tre per “Shining” annoverando anche quella mai proiettata che includeva nel finale la visita di Ullman in ospedale, e cinque per “Blade Runner”) quel filigranico anello di Moebius evidente già dalla scena finale della international cut del 1982, tanto più allegorica di una parentela “imagista” con l’opera kubrickiana in quanto posticcia, della fuga di Deckard e Rachel nel lugubre verdeggiare delle montagne di “Shining”. Costretto dalla produzione a chiudere con una nota ottimista quello che nelle risposte del pubblico ai questionari consegnati alle anteprime di Dallas e Denver viene bollato come uno dei film più deprimenti di sempre, Scott chiede personalmente aiuto a Kubrick dopo aver filmato per cinque giorni l’auto di Deckard tra i monti dello Utah in un paesaggio fotograficamente sciatto e anonimo. Scott si vedrà recapitare a Londra ben nove chilometri di pellicola impressionata da panoramiche aeree del Glacier National Park del Montana, il cui inserimento subito dopo l’entrata di Rachel e Deckard nell’ascensore (che tornerà ad essere la chiusa ufficiale nel director’s cut e nel final cut), se da una parte lo salva dalle ire dei produttori impedendogli di preservare l’integrità artistica della sua opera, dall’altra gli mette a disposizione il più plastico e subliminale degli addentellati possibili con l’impianto segnico di “Shining”.
Deckard e Rachel abbandonano così le sovraffollate tenebre violentate dai neon e i vidwalls della Los Angeles del 2019 per consegnarsi alle brumose vastità montuose che vigilano sugli orrori claustrofobici dell’Overlook hotel di 39 anni prima. Ed è forse proprio la foto del 4 luglio 1921 sulla quale carrella la macchina da presa di Kubrick quella che il titanico occhio-specchio scruta insieme all’Erebo fiammeggiante dei fotogrammi d’apertura di “Blade Runner”, attestando con la sua silenziosa onniveggenza divina innalzata su un circuito di riflessi oculari e mentali che, come scrisse Eliot nel primo dei “Quattro Quartetti” “Se tutto il tempo è eternamente presente / tutto il tempo è irredimibile”, eternità la cui percezione tuttavia non è appannaggio degli uomini accecati dal presente, dal momento che “Essere consapevoli è non essere nel tempo”.
 Un Tempo ancipite che continua a redimersi tra i due sguardi simmetrici di film incisi sulla retina dell’occhio interiore di Giano Bifronte.