SULLA SINDROME DEL GENIO RELATIVO (e su come guarirne)
Nel corso degli
anni la mia attività creativa mi ha permesso d’incontrare personaggi e di
vivere situazioni che non avrebbero sfigurato in una stagione di “The Twilight
Zone” o, per essere più al passo coi tempi, di “Black Mirror” e “Stranger
Things”. Dal viaggio imprevisto compiuto tra filoni di pane sul furgoncino
diretto al castello di Pubol in Catalogna, alla visione del bambino in calzoncini
corti e zaino in spalla che a Tokyo attraversava la strada sotto la neve del
primo mattino. Dal critico d’arte che tra sacchi di gesso nel cortile di
Palazzo Barberini mi parlava con l’accento greve di un Mario Brega
consigliandomi di rinunciare all’arte per votarmi alle gioie della carne, al
tipo che a Firenze ripeteva come la musica elettronica fosse tutta una fuffa
commerciale, alla ragazza che sul volo Londra-Roma voleva convincermi che dopo
i trent’anni il celibato fosse dannoso per la salute di un artista (ribadendolo
nei giorni successivi con sms a raffica), al “promotore culturale” che mi chiedeva sbraitando di non danneggiargli il
basso ventre con la richiesta di collaudare lo schermo sul quale avrei dovuto proiettare
i miei corti.
Ma ad affascinarmi
per le sue implicazioni etologiche è sempre stato il comportamento di quelle
persone che, venute a contatto in periodi diversi e per ragioni diverse con la
mia arte, sembravano subire una sorta d’invasamento mistico. Alcuni di loro
erano capaci di telefonarmi ogni giorno intercalando le frasi con esclamazioni come
“Sei il numero uno! Sei un genio! Sei un fenomeno!”, si offrivano di diffondere
la mia arte ai quattro angoli del pianeta (senza spiegare in che modo) o vaticinavano
imminenti trionfi e successi. Di norma a
questa fase di “vasodilatazione” (che poteva protrarsi anche per mesi) faceva seguito
una di circospetta “circonvenzione”: il soggetto cominciava a calibrare le sue
azioni e le sue parole in funzione di un obiettivo che non riguardava più solo
il sottoscritto. Gradualmente la genialità che mi veniva da loro attribuita andava
mitigandosi, defluendo nelle loro nuove, nascenti aspirazioni artistiche o scivolando
sotto il tappeto di un disamoramento più o meno ostentato. E questo mentre continuavo
con gli stessi ritmi e la stessa dedizione a produrre opere su opere. Nella sua
fase finale il soggetto tornava nell’oblio totale dal quale era emerso come una
specie di araldo andato in pensione. Puntualmente alcuni (non tutti) di questi
soggetti vanno incontro a ricadute quando il mio nome fa capolino su una pagina
di giornale, su uno schermo televisivo o su un sito. Sono presi dalla smania di
tessere panegirici e biografie delle quali a volte vorrebbero i diritti d’autore, convinti che in tutto quel tempo in cui sono rimasti in silenzio la loro influenza
abbia continuato ad agire per vie telepatiche.
La psicopatologia
del “genio relativo” non è tuttavia una sindrome nuova o particolarmente perniciosa
per chi la subisce ma nel tempo, soprattutto con l’avvento del web, ha assunto
le forme virali più insospettabili e fantasiose.
Ma per chi ne è
affetto senza saperlo o sta cercando il modo di guarire, è possibile applicare
questa semplice terapia: guardarsi ogni giorno allo specchio e studiare le forme
più o meno curvilinee assunte dal proprio volto.
P.S. A scanso di equivoci, mi preme precisare che non ho nulla contro chi esprime apprezzamenti "iperbolici" a voce o per iscritto. Nel testo mi riferisco esclusivamente ad una tipologia con specifici tratti caratteriali osservati nel lungo termine.
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