Per il luterano Rudolf Otto nel “mysterium tremendum et fascinans”, il mistero che attrae e avvince la coscienza nello sbigottimento, risiedeva l’esperienza del Sacro vissuto come l’Altro, l’alterità suprema, ineffabile, incomprensibile ed inquietante nel suo essere al contempo irresistibile e portentosa. Al netto delle sue implicazioni teologiche e mistiche, a questa definizione del Sacro come Mistero non s’era discostato pochi anni prima Giorgio De Chirico con l’iscrizione apposta sulla finta cornice dipinta sul bordo dell’autoritratto del 1911 “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”. Con lo sguardo liricamente accigliato rivolto verso un punto esterno al quadro stesso, ad imitazione dell’Eraclito affrescato da Raffaello nella “Scuola di Atene” e dell’angelo pensoso inserito da Durer nell’incisione della “Melancholia I”, il padre della metafisica si faceva testimone in prima persona, per mezzo dell’atto pittorico e dell’atto drammatico della messa in posa, del nucleo sorgivo dell’agire creativo. Per il pittore delle piazze silenziose e delle muse inquietanti, delle lunghe ombre meridiane e delle torri incombenti, delle statue senza volto e dei treni spettrali diretti verso stazioni deserte, è l’Enigma, il Mistero, tutto quel che essendo insondabile e inesprimibile conserva la sua immanente e onesta irrealtà, a scatenare le dinamiche, sia emotive che intellettive, alla radice del fenomeno estetico e (specie nel mio caso personale) della “visione medianica”.