“NEW YORK, a venture”, il nuovo film di Alessandro
Fantini girato a Manhattan
L’artista abruzzese Alessandro Fantini torna a parlarci delle sue avventure
cinematografiche vissute nell’isola insonne più celebre d’America, anzi di una
“venture” misteriosa che porterà i protagonisti del suo nuovo film a ritrovare
i frammenti perduti delle propria infanzia tra le fiamme di una Visione sospesa
tra Storia e Immaginazione.
“In un minuto di New York/tutto può cambiare, In un minuto di New York/Le
cose possono diventare piuttosto strane”.
Il refrain tratto dalla canzone di Don Henley potrebbe essere il perfetto
“logline”, ossia il sunto promozionale della trama di “New York, a venture”,
film girato a Manhattan la scorsa estate risalendo le correnti di quel Tempo Interiore
che irrora le arterie ortogonali dell’isola insonne più famosa d’America. Un
Tempo ondivago e frenetico che avevo cominciato a navigare nell’Autunno del
2013 durante il mio primo soggiorno tra l’Hudson e l’East River, fendendo le
strade affollate con la mia videoreflex brandita come un sestante col quale decifrare
la costellazione emotiva che mi avrebbe indicato la rotta verso la faglia
mentale dove la New York di superficie s’incunea nella sua controparte incorporea,
sul cui fondo da decenni si ammassa l’humus della Storia e delle visioni che
l’hanno alimentata. La New York dove l’architettura neogotica della Trinity
Church di Saint Patrick e quella dei grattacieli come il Woolworth Building e
il General Electric Building fondono lo slancio del sacro e dell’ambizione secolare
nella vertigine dell’assalto al cielo, mentre la rinnovata linea ferroviaria
della High Line serpeggia sopra le strade trapassando i palazzi fino al Lower
West Side, a sfidare con le sue aiuole pensili l’aridità del cemento e del
traffico sottostante, dove uomini in doppiopetto ballano scalzi e i predicatori
in giubbotti frusti si fermano ai bordi dei marciapiedi inveendo contro le malefiche
lusinghe del capitalismo.
È proprio tra le varie scoperte ed incontri
collezionati nelle mie febbrili ricognizioni da Battery Park ad Harlem, dal
Theatre District a Midtown, confluiti in corso d’opera nel documentario
“Bryant’s ode” sottoforma di un anti-racconto per immagini, musica e versi, che
qualche mese dopo avrei compreso come dietro la loro apparenza si annidasse il
seme di una vera e propria storia che attendeva solo di trovare i suoi
protagonisti per essere narrata sullo sfondo di quegli stessi scenari. Uno dei
versi del poema, scritto per fare da contrappunto verbale alla prosa visiva del
documentario, commentava infatti la Fontana della Pace realizzata dallo
scultore Greg Wyatt per il Childrens Scultpure Garden, un piccolo parco dalle
reminiscenze edeniche collocato sul lato sud di Saint John the Divine, lacattedrale gotica più grande del mondo, nel
quartiere di Morningside Heights, raggiunto al tramonto dopo aver percorso a
piedi tutta l’Ottava strada dal West Village fino a Central Park North.
Quell’impasto
di fiabesco e grottesco, solidificato nella spirale cromosomica sovrastata da
un sole e una luna sorridenti sotto l’arcangelo vittorioso su un Lucifero
ridotto ad una testa spenzolante, divenne subito ai miei occhi la trasposizione
simbolica di quell’avvicendamento ciclico tra la componente diabolica ed
angelica, dionisiaca ed apollinea, che vivifica l’anima irrazionale di New York.
Fermo nel mio proposito di ritrovare tutte le concatenazioni di senso tra il
mio viaggio personale e il potenziale cinematico della Fontana, come nel gioco
della “Caccia all’Immagine Nascosta”, si trattava adesso di riportare a galla
la “fabula” celata sotto quel formicolante composto di simboli, suoni, ombre,
odori e stati mentali fomentati dalla loro continua ricombinazione. Le ricerche
compiute nei mesi seguenti sulla storia della Cattedrale e la genesi della
scultura non fecero che confermare le mie intuizioni. Come se stessi leggendo
in una griglia di Cardano applicata sulla pagina di un antico libro cifrato,
venni a conoscenza delle processioni degli animali tenute nella cattedrale, delle
colonne apocalittiche del Portale del Paradiso, dell’incendio che danneggiò il
transetto nord della cattedrale il 18 Dicembre del 2001.Fu così che, per effetto retroattivo, tutti i
tasselli che avevo disposto alla rinfusa davanti a me si ricomposero in una
visione cinematografica compiuta, permettendomi di trovare un legame narrativo
tra un oggetto innocuo, lo zucchetto bianco con il simbolo del pesce blu, e le
fiamme intese come distruzione, purificazione e rigenerazione della vita. Una
volta stesa la sceneggiatura, disegnati gli storyboard sulla base dei video e
delle foto scattate quell’autunno, composte le prime musiche ispirate alle
sonorità gothic-industrial di organi, xilofoni, cimbali, ingranaggi e gong, il
casting ha rappresentato l’ultima e più rapida fase, seguendo il rigoroso
criterio che tutti gli attori e le comparse fossero newyorkesi o perlomeno
residenti a Manhattan.
“Nel vortice del Tempo/Le torsioni del Fato/ Sono spirali giocose di un
serpente giallo”. Incluso nel montaggio di “Bryant’s ode”, il verso ricompare
in una delle strofe della raccolta “Flames of Vision” recitate da Amy Bolnes,
la protagonista del film interpretata dall’americana Kyrie Vickers, fornendo un
faro sonoro ad Adam Clairfield, alias Craig Williams, piombato in una cecità
improvvisa dopo essere stato colpito accidentalmente alla testa nello Zoo di
Central Park. Tuttavia, laddove nel documentario descriveva il raccordo
pindarico tra il serpente che si avvolge sulle spalle dei turisti sul ponte di
Brooklyn e il piano sequenza circolare intorno alla statua di Fiorello La Guardia,
nel film dispiega un più ampio ventaglio di significati, riferendosi in senso
figurale sia all’elica del DNA che riassume l’evoluzione della vita sulla terra
nella Fontana della Pace, sia a quel rovesciamento che ha sconvolto le vite dei
due protagonisti. Quello stesso evento traumatico che più di dieci anni prima
li ha allontanati dalla città della loro infanzia, tornerà a farli incontrare attraverso
arcani ingranaggi mossi dagli animali rotanti dall’orologio musicale di George Delacorte,
dalle immagini sonore stimolate dalle voci dei visitatori del parco, e infine dalla
musica d’organo della cattedrale di Saint John. Perché la sinestesia, fenomeno
psichico che porta a vedere i suoni e a sentire i colori di cui Adam scopre d’essere
affetto fin dall’infanzia, può considerarsi il culmine magico dell’atto
artistico. Grazie ad essa un’intera città può essere rivissuta come una
sinfonia di colori nella memoria di un fuoco sacro, illuminando l’oscurità del
quotidiano dove la gente s’illude di poter seguire la propria strada tenendo
gli occhi aperti, ignari che, per usare le parole di Borges ad apertura del
film “la cecità è una liberazione, una solitudine propizia alle invenzioni, una
chiave e un’algebra”. Una chiave che sarà compito dello spettatore ritrovare al
termine del film, dopo aver chiuso gli occhi per riaprire le stanze, buie ma
ancora autentiche, dell’infanzia dei propri sensi.
New York, a venture (2014)
Durata: 38 minuti - Extended
cut: 60 min.
Regia: Alessandro Fantini
Sceneggiatura, fotografia,
montaggio, musica ed effetti speciali: Alessandro Fantini
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