Il nome che fu scritto nell'acqua
Il Leone d’oro assegnato a “The Shape of Water” di Guillermo Del Toro non
è solo un tardivo quanto doveroso riconoscimento critico ad un cinema
“fantastico”, non di rado derubricato a genere d’evasione, che negli
anni l’”ingombrante” messicano (insieme ad altri alchimisti della
concreta irrazionalità come Jodorowsky e Alex de la Iglesia) ha fatto
risplendere di luce propria con affilate gemme di realismo magico come
“La spina del diavolo” e “Il labirinto del fauno”, in grado
di raccontare e dare corpo ai crudeli paradossi della guerra e
dell’oppressione politico-culturale quanto e meglio di un film storico o
un documentario. È anche un’implicita reprimenda indirizzata ad un
cinema italiano che s’illude di poter svecchiarsi o acquistare un
respiro internazionale scritturando cast anglofoni o sfruttando location
estere, senza prima riuscire a prendere coscienza d’essere ancorato ad
una visione greve, autoconsolatoria e “domestica” del narrare per
immagini che poco o nulla dimostra d’aver conservato di quell’igienica
sregolatezza che permetteva ad un Ferreri o ad un Fellini di restituire
gli incubi della loro epoca nella fiabesca mostruosità della settima
arte. Cinema che, Melies c’insegna, proprio dalla placenta del genere
fantastico trasse il suo primo nutrimento, rimanendo ancor oggi il più
potente medium artificiale del sogno lucido collettivo.
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