William Wilson era
un replicante?
(Blade Runner 2049: di conservanti e derivati cinematografici)
di Alessandro Fantini
AVVERTENZA: Da leggere preferibilmente dopo la visione del film
Alessandro Fantini - "Memories row", matita e pastello su carta (2017)
Nel racconto “William Willson” di
Edgar Allan Poe, il protagonista è destinato a morire al momento di sfidare a duello il proprio doppio nell’intento di disfarsene. Cosciente di
questo rischio, sembra che il canadese Denis Villeneuve abbia cercato in tutti
i modi di evitare che il suo “Blade Runner 2049” finisse con l’essere soltanto
una reverente controfigura (o un replicante aggiornato come i Nexus 9) di
quello che negli ultimi 35 anni si è rivelato uno smisurato giacimento di tropi
estetico-filosofici per il cinema e la cultura popolare. Eppure, anche nel disperato
proposito di conferirgli un’anima e una carne propri senza volerne dissimulare
la filogenetica essenza di mero omaggio ancor prima che di seguito, il
regista si rende conto di non poter sfuggire alla maledizione di Wilson
commettendo l’atto di “ubris” di voler risultare non più “umano dell’umano”
(per dirla con le parole del mogul della biomeccanica Eldon Tyrell) bensì più
originale dell’originale di Ridley Scott, nell’ambizione di potersene a
suo modo “disfare” per acquisire una sua
autosufficienza espressiva.
“Non appena ho saputo che stavano
lavorando ad un seguito di Blade Runner ho pensato che fosse una
meravigliosa pessima idea” aveva confessato Villeneuve alla stampa durante la
preproduzione del film affidatogli, dopo l'indisponibilità di Scott, dai produttori Andrew Kosove e Broderick
Johnson con i quali aveva già lavorato nel 2013 per
il suo exploit americano “Prisoners”. C’è motivo di credere che continui a
pensarlo in segreto, nonostante le prime (fin troppo) entusiastiche critiche ricevute
dopo le proiezioni riservate alla stampa.
Alessandro Fantini - "Note di K", matita, china, pastello e acrilico su carta (2017)
“All’inizio mi sono sentito come
un vandalo che entra in una chiesa per imbrattarne i muri”. E l’impressione è
che sia stata proprio una fideistica soggezione a indurre il regista a
fermarsi alla navata centrale di questa cattedrale (come Harrison Ford ha
generosamente definito il film nelle interviste rilasciate a ridosso
dell’uscita) per permettere al suo sodale Roger Deakins, virtuoso architetto
della luce già scatenato in “Sicario” e "Prisoners", di esplorarne l’abside e i
soffitti, abbandonandosi ad un autarchico sfoggio di centoni di bravura luministica,
tali da tramutare l’intero film in una sterminata tela pensata per accogliere un
estroso portfolio di fotografia artistica. Ecco quindi che nella trama di
questa tela la storia dai risvolti “proustiani-collodiani” dell’agente K concepita
dapprima sotto forma di racconto breve da Hampton Fancher (autore nel 1980 della
prima stesura della sceneggiatura basata sul romanzo di Philip K. Dick “Gli
androidi sognano le pecore elettriche?”) e poi sviluppata insieme a Scott e Michael
Green, si dipana tortuosamente con l’intento di divenire essa stessa
l’intelaiatura dell’opera, pur essendone suo malgrado uno dei tanti capitelli.
Nel formato di un corto di 30 minuti o di un episodio di serie come "Black Mirror" e "Electric dreams", la vicenda
del replicante Nexus 9 programmato per “ritirare” i vecchi latitanti
Nexus 8 che sospetta di essere “unico” grazie al ritrovamento di un oggetto in
grado d’inverare un ricordo d’infanzia creduto un innesto
artificiale, avrebbe infatti rappresentato un ottimo esempio di coltivazione ed evoluzione del genoma poetico-narrativo insito nell’universo fanta-distopico di
“Blade Runner”.
I temi della definizione ontologica della realtà e della
coscienza di “cartesiana” e “kantiana” memoria a cui, dopo il film di Scott, avrebbero
attinto in varia misura anche “Robocop”, “Matrix”, "A.I.", "Vanilla Sky", "Ex machina", “Total Recall”, “Minority
Report” e “A scanner darkly” (questi ultimi tre tratti non a caso da
altrettanti racconti dickiani) vengono affrontati nel “roman a clef” di K da
nuove angolazioni che ne estendono le implicazioni empatico-esistenziali legate
al concetto del libero arbitrio, della connessione emotiva e della reificazione di pulsioni sessuali e bisogni
affettivi. In quest’ottica il “semi-plagio” dell’idea chiave del film “Her” di
Spike Jonze, quella di un sistema operativo capace di simulare una relazione
amorosa con l’utente, ravvisabile nel motivo della fidanzata olografica “Joi”, prodotto
venduto dalla Wallace corporation per soddisfare l’esigenza del cliente di
sentirsi “amato” e “speciale”, acquista una sua specificità nel suo esser qui presentato
in maniera plastica come una presenza visiva che anela alla realtà fisica, al
punto da volersi sovrapporre al corpo di una prostituta replicante che possa fungerne da “hardware
biologico”, in maniera più visivamente e concettualmente intrigante di quanto accade
nel film di Jonze, riverberando il desiderio crescente di K di scoprirsi
dotato di un’infanzia e quindi meritevole di una dignità umana. Dignità negata
dal suo “status” di “skinjob”, “lavoro in pelle”, come il capitano Bryant nel
primo film definiva i replicanti usando uno slang paragonato da Deckard a quello
rivolto dagli schiavisti ottocenteschi nei confronti dei neri.
Alessandro Fantini - "One more for the road", particolare, olio su tela (2017)
Appena
accennato nell’82, il regime di apartheid a cui sono sottoposti i replicanti dopo gli ammutinamenti sulle colonie extra-mondo e il black out del 2022, viene
stavolta esplicitato con struggente efficacia dalla solitudine, dagli insulti ricevuti
dai colleghi umani e da un impietoso test psicologico (non lontano discendente
del Voigt-Kampff impiegato dai vecchi blade runner) che K subisce nella
centrale di polizia al rientro da ogni missione per verificarne il suo grado di
obbedienza e di equilibrio empatico. La passione per i libri e per la musica
degli anni ’50 sono ulteriori tocchi che arricchiscono la sfera personologica
dei replicanti evidenziandone la loro ossessione verso un’autenticità garantita
dal possedere un passato. Così come Roy Batty citava i versi di William Blake e
Leon collezionava foto, Sapper dona “Il potere
e la gloria” di Graham Greene ad una ragazzina nel corto
“2048: Nowhere to run”, K ascolta Sinatra e legge Stevenson e Nabokov (il
romanzo “Fuoco pallido” maneggiato da Joi potrebbe essere una romantica allusione all'oblio della morte che solo l'arte, massima espressione di umanità e scrigno di memorie, può scongiurare).
Confinata entro i limiti della Los Angeles del 2049,
ripensata come un megalitico alveare di blocchi abitativi
in stile “brutalista" (analoghi a quelli del manga "Biomega" di T. Niehi), innalzati in una caligine notturna scalfita da
vidwall olografici, insegne pubblicitarie e un nevischio spettrale, la
descrizione della giornata tipo di K restituisce in maniera algidamente
impeccabile l’angst esistenziale del tardo futuro parallelo presupposto dal
primo film. Ma è quando la sceneggiatura pretende di oltrepassare il “limes” spazio-temporale
segnato dal primo e ultimo dei 117 minuti del film fondativo, che il dipinto
perde tonalità e freschezza, tramutandosi in una prolissa oleografia tirata a
lucido in cui far confluire tutto il glossario fantascientifico e
cinematografico pre e post-Blade Runner. Quasi a dover fare del “sequel” di un
film ultra-seminale, la parossistica sintesi “hegeliana” di tutte le opere
derivate e imparentate con il cyberpunk, lo steampunk e il biopunk.
Non si può però negare che l’arrivo silenzioso di K nella fattoria in cui
il Nexus 8 in incognito Sapper Morton alleva i nematodi, uniche forme viventi
da cui la Wallace Corporation ricava le proteine necessarie alla sua
linea di cibi sintetici, abbia tutte le caratteristiche del preludio ad
un’indagine in perfetto stile hardboiled. Non a caso la sequenza è il
fedele riadattamento del prologo d’apertura della prima versione della sceneggiatura
di “Blade Runner” scritta da Fancher nel 1980, completa della pentola che bolle
e dell’albero morto fissato a terra con le funi.
In questo caso, invece della mandibola incisa
con il numero seriale, dopo aver “ritirato” Sapper, K gli cava l’occhio destro, in modo da identificarlo come un medico militare appartenente a un
gruppo di replicanti fuggiti nel 2020 dalla colonia extra-mondo di Calantha (in
osservanza del "leitmotiv" dell’occhio, il film si apre con un’immensa
iride verde che solo verso il finale si scoprirà essere ben più che un semplice
tributo iconografico a quella divina che scrutava l’inferno industriale del
2019).
E' il ritrovamento di una cassa contenente dei resti umani interrata sotto
l’albero morto, ad innescare il classico gioco degli indizi concatenati che
condurranno invariabilmente il protagonista al denouement che, in virtù di una
scrittura didascalica e una regia asettica, si trova trascinato da un McGuffin
che lo fa apparire sempre più prevedibile e posticcio sin dal secondo atto del
film. Trentacinque anni prima l’interazione e l’immersione dell’anti-eroe Deckard nel contesto
socio-urbanistico della megalopoli piovosa, dentro i suoi interni più o meno
sovraffollati e deserti come Animoid Row, il bar di Taffey Lewis o il Bradbury
building, forniva un sovratesto sociologico e averbale che, grazie alla
saturazione semiotica degli ambienti e l’onnipresente plasma sonoro di
Vangelis, compensava e sublimava l’esiguità della trama nell’epos retro-futuristico
della paranoia e della melancolia cosmica di un mondo sull’orlo dell’apocalisse.
Il viaggio a tappe forzate di K che lascia Los Angeles per raggiungere prima un
orfanotrofio isolato in una discarica industriale dallo squallore "tarkosvkiano", poi una Las Vegas tramutata
in una imponente necropoli cyber-egizia infestata da una bruma radioattiva,
sacrifica del tutto le sezioni dedicate alla caratterizzazione sociologica del
mondo del 2049, tralasciando di approfondire e connotare quel contesto
economico-culturale che avrebbe dato maggior peso drammatico alle azioni dei
personaggi. Per buona parte del film si ha la sensazione che i protagonisti
agiscano davanti ad una scenografia congegnata con zelo chirurgico per essere
null’altro che, appunto, dei fondali o dei contenitori esteticamente rifiniti, pronti per essere miracolati dalla luce di Deakins. Persino
gli interni, specie l’ufficio del comandante Joshi, i corridoi della stazione
di polizia, il laboratorio medico e la sala delle memorie della dottoressa
Stelline, nella loro luminosa glacialità si limitano a svolgere l’anonima
funzione di cubicoli di navicelle da fantascienza anni 60-70.
Alessandro Fantini - Se non c'è un muro..., matita, pastello e acrilico su carta (2017)
Di diverso
carattere il mastodontico tempio che fa da sede per la
corporazione industriale del megalomane tycoon Niander Wallace, ipertrofica parodia delle ziggurat del defunto Tyrell,
stagliate al di sopra di queste ultime in una macabra nebbia che ne fa solo
intuire la fosca simmetria di torrioni allineati a formare una W. Il totale ha di certo un
forte impatto pittorico prossimo a quello dei nebbiosi palazzi alieni dipinti dal
polacco Beksinski, così come la sterile studio-piscina dove Wallace sembra
meditare nella penombra tramata da riflessi equorei, eredi a loro volta delle
rifrazioni che animavano la dorata maestosità dello studio di Tyrell. Peccato che i
ridondanti soliloqui pseudo-miltoniani di Wallace, la sua fumettistica psicopatia
sanguinaria e la remissiva condiscendenza della sua assistente Luv, relegata
allo stereotipo di scherano tuttofare, vadano a stridere con la ieratica solennità
atmosferica che li circonda e la grandiosità delle mire industriali ed
espansionistiche che la sua corporazione dovrebbe perseguire.
Ammazzare una
replicante fresca di produzione, sfilata da una sacca di plastica come un
alimento sottovuoto, solo perché priva di un utero in grado di generare, cessa
di avere qualsiasi intrinseca simbologia al momento di
considerare che per poter trovare il segreto della procreazione, Wallace, guru
della riproduzione seriale di cibi ed esseri viventi, abbia bisogno del figlio
di una replicante progettata dal defunto Tyrell.
In tal senso il film non si
adopera per giustificare, mediante indizi o scene esplicative, per quale motivo
nel 2049 di Blade Runner, una corporazione in grado di creare droni, veicoli
volanti, armi satellitari e milioni di replicanti da spedire su altri pianeti, non abbia
sviluppato una biotecnologia in grado di replicare l’inseminazione degli ovuli così
come aveva fatto trent’anni prima un singolo scienziato. Senza contare che se questo
“miracolo” è solo il frutto genetico dell’organismo che l’ha partorito,
dovrebbe essere più prezioso e più che sufficiente il DNA dei resti della madre
trovati nella cassa. Per quanto ammaliante, l'allegoria del demiurgo-pigmalione furioso per la sua impossibilità a replicare la fertilità femminile non trova un altrettanto solido fondamento logico-narrativo.
La sceneggiatura glissa su questa incongruenza
riportando l’importanza del “figlio-McGuffin” sul piano di una para-religiosità
messianica, che da una parte riconoscerebbe in questo replicante nato e non
fabbricato la guida biblica di una ribellione-emancipazione dell'intera specie, dall’altra la chiave necessaria a Wallace per perpetuare all'infinito la sua serie Nexus e conquistare nuovi mondi (senza chiarire se l’obbedienza
programmata possa essere resa o meno ereditaria).
Di certo non si può dire che il primo film non difettasse di buchi e di ellissi, primo tra tutti quello dell’uso del test Voigt Kampff su replicanti dei quali la Tyrell possedeva già le foto, il servizio di sicurezza pressoché inesistente della corporazione, e il fatto che un singolo blade runner ignaro dei nuovi Nexus 6 venisse richiamato in servizio per eliminare quattro spietati replicanti dalla forza sovrumana. Ed è proprio quando il sequel cerca di colmare quelle ellissi (che solo l’aura di miasmatico mistero in cui era sospeso il film rendeva organici alle esigenze di sceneggiatura), insinuando ad esempio che il vero obiettivo del coinvolgimento di Deckard fosse quello di una “procreazione sperimentale" che il film entra nella zona "The Matrix Revolutions" e rischia di smentire, nonostante tutta la buona volontà e il sincero impegno profusi da Villeneuve, la seriosa ponderosità delle due ore precedenti. Che nulla evidentemente ha potuto contro la scena (superflua quanto il precedente cameo di Gaff) in cui viene richiamata in vita una giovane Rachel alias Sean Young, offerta a Deckard come contentino ed esca da un Wallace sempre più macchiettistico, presentato per l’ennesima volta quale geniale incompetente quando la “replica” risulta sprovvista degli “occhi verdi” dell’originale amato da Deckard e viene quindi subito “ritirata” da Luv.
Di certo non si può dire che il primo film non difettasse di buchi e di ellissi, primo tra tutti quello dell’uso del test Voigt Kampff su replicanti dei quali la Tyrell possedeva già le foto, il servizio di sicurezza pressoché inesistente della corporazione, e il fatto che un singolo blade runner ignaro dei nuovi Nexus 6 venisse richiamato in servizio per eliminare quattro spietati replicanti dalla forza sovrumana. Ed è proprio quando il sequel cerca di colmare quelle ellissi (che solo l’aura di miasmatico mistero in cui era sospeso il film rendeva organici alle esigenze di sceneggiatura), insinuando ad esempio che il vero obiettivo del coinvolgimento di Deckard fosse quello di una “procreazione sperimentale" che il film entra nella zona "The Matrix Revolutions" e rischia di smentire, nonostante tutta la buona volontà e il sincero impegno profusi da Villeneuve, la seriosa ponderosità delle due ore precedenti. Che nulla evidentemente ha potuto contro la scena (superflua quanto il precedente cameo di Gaff) in cui viene richiamata in vita una giovane Rachel alias Sean Young, offerta a Deckard come contentino ed esca da un Wallace sempre più macchiettistico, presentato per l’ennesima volta quale geniale incompetente quando la “replica” risulta sprovvista degli “occhi verdi” dell’originale amato da Deckard e viene quindi subito “ritirata” da Luv.
Divorato dal gravame di una
maldestra continuità con il primo Blade Runner e il ritorno di un Deckard
imbolsito e sentimentale che non fa che zavorrare il minutaggio del film, la
storia di K riprende un ultimo slancio allorquando l’agente-replicante
comprende che l’unica via per autodeterminarsi come unicum sono le sue azioni,
al di là della sua origine artificiale o naturale, di ricordi reali o
innestati.
Così diventa quasi perdonabile persino l’ultimo irruente cliffhanger con
inseguimento degli spinners di Wallace diretti verso un aeroporto (dove
inspiegabilmente Luv intende scortare Deckard fino a quella che definisce “casa”,
ossia una colonia extra-mondo, alludendo di nuovo alla sua possibile natura
replicante). Così come è parimenti catartico assistere alla lotta finale nell’acqua
prenatale dell’oceano ai piedi del colossale muro di Sepulveda, in cui tutti
minacciano di annegare ma solo Luv troverà la morte per espiare quella di Joi
(con le facili implicazioni semantiche per cui “senza gioia non c’è amore”), mentre
K e Deckard, dato per morto, rinascono per consentire a quest’ultimo di rivedere
la figlia, seppure dietro il vetro protettivo di una capsula che separa la
fredda realtà dal calore umano di memorie vissute e immaginate, non
diversamente dal jukebox in cui l’ologramma di Sinatra canta “non c’è nessuno
in questo posto, eccetto tu e io”.
Perché, sanguinante sotto la neve, K ha finalmente realizzato
che non ha alcuna importanza essere “speciale” o “umano”, ma alla stregua di un
novello Roy Batty, solo il compiere delle scelte nel presente e aver mostrato
empatia nel proteggere l’amore di un padre per sua figlia. Come avrebbe detto
Pasolini: “Solo l’amare conta, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver
conosciuto.”
E
perchè insieme al sangue, come suggerisce il riarrangiamento di "Tears in
rain" (ad opera di Zimmer e Wallfish, fino ad allora defilati a modulare rantoli e borborigmi elettronici) a perdersi in quel biancore tossico
ci
sono anche le lacrime di colui che vide “i raggi B balenare nel
buio vicino alle porte di Tannhauser”. A riprova che quelle mescolate alla pioggia di una notte
del novembre 2019 non andranno davvero mai perdute nel tempo.
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