CLOVERFIELD
RIGURGITI ICONOGASTRICI
recensione di Alessandro Fantini
Fedele ai dogmi del “meticciato”
linguistico applicati nel rodatissimo e altrettanto logoro "Lost"
(survival-tv movie di matrice seriale che deve gran parte del proprio successo
all’astuto abbattimento dei confini tra cinema, docu-fiction e reality), questo “Cloverfield”, ennesima
"creatura" cinematografica del produttore J.J.Abrams diretta da Matt
Reeves, mira tuttavia a compiere il percorso inverso attingendo stavolta dal
lessico di quel vernacolo mediatico che negli ultimi quindici anni ha metabolizzato il
codice espressivo del reportage televisivo nella "liofilizzazione"
amatoriale dei video girati da camcorder e telefonini "sversati"
sulla rete, per trasferirne il prodotto finale sul grande
schermo ingigantito ed esasperato dai “mirabilia” degli effetti speciali. Non
solo negli interminabili ed angosciosi piani sequenza peristaltici della
televisione post "11 settembre" va ricercato l'elemento di maggior
seduzione del progetto, quanto piuttosto nell'astuzia citazionistica, già ricodificata
dal “bullet time” di “Matrix” e dilapidata nella penosa conversione
cinematografica dello sparatutto in prima persona di “Doom”, di quelle nuove
modalità di fruizione interattiva di cui la dimensione videoludica
deflagrata con la pandemia delle consoles ha testimoniato l'ineludibile
fascinazione.
Ecco quindi che i riferimenti apparenti allo stentato “Blair
Witch Project” di Myrick e Sanchez appaiono pretestuosi e surrettizi nella
misura in cui la parentela putativa di Cloverfield si limita al recupero
dell'espediente narrativo del casuale recupero dei videotapes degli scomparsi
(deformazione stilistica sopravvissuta fino ai nostri giorni con la serie “REC”
e il più recente “VHS”), e sulla ripresa su larga scala del viral maketing
inoculato via web che all'epoca ne aveva amplificato immeritatamente le
proprietà rivoluzionarie nell'assegnazione del principio di realtà a materiali
grezzamente fittizi (strategia di depistaggio testata sin dai tempi di “The
Texas Chainsaw Massacre” del 1974, opera low-budget spacciata per ricostruzione
documentaria di efferati delitti realmente accaduti, sebbene in verità
liberamente ispirata alle gesta necrofiliche di Ed Gein).
Più
stimolante e provocatorio sarebbe invece l'accostamento con gli esiti
radicalmente opposti del "perpetuo maremoto" ottenuto dalla tecnica
della camera in spalla portata al suo acme ne "Le Onde del Destino"
di Lars Von Trier.
Poco
o nulla c'importa del mastodontico umanoide rettiliforme e anfibio che, senza
alcun evidente motivo, scatena la sua furia da elefante impazzito tra i
pinnacoli di vetro e cemento di una Manhattan notturna fotografata come la
città morta di un incubo al neon. Né tanto meno c'interessa parteggiare o
partecipare del terrore simulato con approssimazione da situation comedy che
muove l'erratica fuga dei ragazzi “demi-monde” che, fin dal risibile
pseudo-reality dei venti minuti introduttivi, sfilano davanti all'operatore
professionalmente incompetente senza conferire alcun guizzo di personalità ad
un'irritante bidimensionalità che li renderà simpatici solo al momento di
essere spazzati via dal cataclisma liberatorio che investe la città. Quel che
decuplica e confonde le reazioni dello spettatore, continuamente oblique tra
nausea, vomito, noia, tensione, perplessità, apprensione, curiosità infantile,
è piuttosto la maniacale opera di celebrazione del pretesto visivo che sposta
sistematicamente il fuoco della persuasione dal campo della verosimiglianza dei
personaggi e della trama, a quella della grammatica estetica spinta a vertici
mai raggiunti fino ad allora dal medium audiovisivo.
Basteranno
difatti la defezione assoluta del commento musicale a favore di una raggelante
sinfonia di urla, sibili e suoni ambientali che contribuisce all'immersività
soggettivizzante della visione (proprio come accade in videogiochi quali
"Silent Hill 2", "Doom 3" e soprattutto “Amnesia: The Dark
Descent”), spiazzando il cinefilo abituato ad accettare l'astrazione di quel
coefficiente espressivo di carattere extradiegetico che per convenzione
conferirebbe all'opera la sua rassicurante omogeneità artistica; la soluzione
tanto ingenua quanto riuscita di ricorrere ad un “flash back” intenzionalmente
involontario presentando l'intero filmato come il risultato di un maldestro
montaggio in camera compiuto sovrascrivendo per errore un nastro sul quale la
coppia di amanti aveva filmato una giornata di melense idillio amoroso (nei cui
fotogrammi superstiti si annidano dei “clues", indizi criptati che
alludono alle origini della creatura come in un gioco d'avventura); la
destrezza del reparto addetto al CGI che fa dell'audace smania di fotorealismo
la struttura portante dell'intero progetto, misurandosi con i ripetuti fuori
fuoco del settaggio automatico della telecamera modello consumer ad alta
definizione che imprime un drammatico tono da reportage di guerra alle prime
esplosioni che squarciano la “skyline” di Manhattan e al lancio della testa
della Statua della Libertà rotolante tra le macchine parcheggiate in strada
(citazione stucchevole ma visivamente efficace dalla locandina del
carpenteriano “1997: Fuga da New York”).
Basteranno
tutti questi minuziosi congegni stilistici dissimulati (e dissimulanti) sparsi
lungo i settanta minuti del lungometraggio, a rendere trascurabile l'ennesimo
trafugamento di quegli stilemi archetipizzati dalle saghe di “Alien”,
“Predator”, dei disaster movies come “Trappola di cristallo”, “Deep Impact”,
“The Day After Tomorrow” e da quella imprescindibile di “Godzilla” della quale
si propone di essere il contraltare mitologico in chiave americana.
Sebbene
non si tratti dello spazio siderale in cui fluttua la Nostromo di Ripley, ma
della più “iconografizzata” metropoli del pianeta, anche in questo caso nessuno
potrà “sentirvi urlare”. Specie se per pochi istanti condividerete la visita alle
fauci del ciclopico intruso prima che quest'ultimo sputi videocamera ed
operatore in un impulso di geniale deiezione mediatica. Forse la più efficace
allegoria di un'epoca che ingoia e vomita le immagini ancor prima di digerirle,
trattenendo solo quel tanto necessario ad alimentare il diafano terrore che per
loro natura i mass media continueranno a inoculare nell'immaginario collettivo.
Ecco quindi che i riferimenti apparenti allo stentato “Blair Witch Project” di Myrick e Sanchez appaiono pretestuosi e surrettizi nella misura in cui la parentela putativa di Cloverfield si limita al recupero dell'espediente narrativo del casuale recupero dei videotapes degli scomparsi (deformazione stilistica sopravvissuta fino ai nostri giorni con la serie “REC” e il più recente “VHS”), e sulla ripresa su larga scala del viral maketing inoculato via web che all'epoca ne aveva amplificato immeritatamente le proprietà rivoluzionarie nell'assegnazione del principio di realtà a materiali grezzamente fittizi (strategia di depistaggio testata sin dai tempi di “The Texas Chainsaw Massacre” del 1974, opera low-budget spacciata per ricostruzione documentaria di efferati delitti realmente accaduti, sebbene in verità liberamente ispirata alle gesta necrofiliche di Ed Gein).
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