Waiting for A.I.nfinity - recensione del nuovo album di Jarre
Con il dipinto “Disintegrazione della persistenza della memoria” del
1954, Salvador Dalì tornava dopo oltre vent’anni al motivo iconografico
che l’aveva consacrato pontefice del surrealismo agli occhi del pubblico
internazionale. Stavolta nella piccola tela gli orologi molli
fluttuavano al di sopra e al di sotto di una schiera di mattoni
particellari che si assottigliavano in corni rinocerontici puntati
contro i resti gravitazionali della baia di Port Lligat, nella
prefigurazione di un futuro devastato dal fallout atomico che,
all’epoca della corsa agli armamenti nucleari, non era frutto soltanto
del delirio paranoico di un pittore catalano. Lungo itinerari più o meno
premonitori anche Jean-Michel Jarre,
al duplice traguardo dei settant’anni di vita e dei cinquant’anni di
attività musicale, torna a elaborare con zelo psicoanalitico il
persistere della memoria di quella che rimane l’opera artisticamente più
compiuta della sua discografia, quella suite in otto parti di
“Equinoxe” che alla sua uscita nel dicembre 1978, sull’onda lunga del
successo di “Oxygene” contava già un milione e mezzo di prenotazioni.
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