Sunday, December 17, 2017

OI POLLOI (The calling thunder)

OI POLLOI (The calling thunder)
oil on canvas, 40x60 cm. (2017)

Friday, December 1, 2017

Sbotta e risposta: fame creativa o sete di fama (dissociativa)?

 

Repetita iuvant?
 L'altro ieri ho ricevuto l'ennesima proposta di esporre a pagamento le mie opere in uno dei tanti ripostigli da rigattiere spacciati per gallerie d'arte sparsi per l'Italia, con l'aggravante che il proponente, oltre ad essere recidivo, sembra soffrire di amnesia funzionale dato che non menziona affatto le mie precedenti e ben cirostanziate repliche.

"Come ebbi già modo di spiegarle con dovizia di dettagli in una email di risposta ad una sua analoga richiesta di partecipazione pervenutami nel 2014, non partecipo più da tempo a collettive allestite senza criteri tematici, ispirate in massima parte dall'unico scopo di drenare i fondi di sedicenti artisti posseduti dalla sindrome dell'"esibizionismo a tutti i costi" (non è raro che alcuni di loro finiscano poi con l'esibire la propria "fame creativa" alla mensa della Caritas).
Cordiali saluti

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Gentilissimo Alessandro,
grazie per la sua risposta chiara ed eloquente, a mio avviso sterile ed inutilmente ricca, per utilizzare una sua espressione, "di dovizia di particolari".
Il suo parere in merito all'operato altrui e quindi anche al nostro, lo reputo nullo quanto la considerazione che ha dimostrato per chi opera in questo settore.
Lei non conosce il nostro modo di lavorare ragion per cui non le concedo giudizi di così basso spessore nei nostri confronti. Le consiglio di tenerli per lei.
L'unico posseduto da "sindrome di esibizionismo" credo sia lei.
Buona giornata.
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Gentilissimo

La dovizia di particolari era riferita alla mail precedente che le avevo inoltrato nel 2014 e che illustrava con chiarezza la mia indisponibilità a prendere parte a collettive a pagamento.

Per meglio comprendere le ragioni che stanno dietro al tono della mia email, le lascio immaginare la spropositata quantità di proposte analoghe che continuo a ricevere da "galleristi" e "curatori" (italiani e non) che da 17 anni a questa parte mi inviano lettere preconfezionate dove elogiano le mie opere senza averle effettivamente viste o tener conto del mio stile e della mia ricerca estetica (nel gergo corrente di internet questo modus operandi si potrebbe definire col termine di "phishing").

Per farle solo un esempio, a casa mia una volta si sono presentati degli "amici artisti" che vantavano collegamenti con un critico d'arte che mi avrebbe permesso di esporre e vendere in luoghi prestigiosi (il critico in questione si rivelò essere un meschino millantatore finito in seguito agli onori delle cronache televisive per aver raggirato e alleggerito di migliaia di euro vari malcapitati artistoidi). Inutile dire come già allora avessi subodorato la natura sospetta di tale interessamento da parte di persone che affermavano di agire solo per "amore dell'arte". A quel critico, che si affannò a contattarmi telefonicamente per offrirmi di essere ospite della sua blasonata trasmissione alla modica cifra di 5000€, risposi con molta franchezza che avevo già una telecamera con la quale filmare e promuovere "pro domo mea" i miei dipinti. Non pensi dunque che le abbia scritto solo per acrimonia o per il gusto autoreferenziale di irridere l'attività del suo centro culturale.

Carissimo, non ci conosciamo di persona ma siamo entrambi adulti e navigati a sufficienza per sapere come in questo "settore" (se tale si possa ancora chiamare) ormai da tempo esiste una zona franca dove una consorteria di affittacamere cerca di convincere che lo status di artista debba essere certificato attraverso l'esborso di quote di partecipazione, necessarie per essere ammessi a rassegne e concorsi "democraticamente" privi di alcun criterio selettivo al di fuori di quello "censocratico".

Se si è sentito chiamato in causa la prego di credere che non era mia intenzione "denigrare" direttamente il suo operato, ma ribadire la mia meditata contrarietà ad un sistema che persiste nel voler illudere quei tanti "artisti" ansiosi di sentirsi "arrivati" (una piaga che affligge anche e soprattutto il campo dell'editoria e dello spettacolo in genere) e che pertanto getta un'ombra anche su chi (forse) agisce correttamente.

Ad ogni buon conto, su un piano generale resto dell'avviso che sia "immorale" e "umiliante" voler inculcare l'idea che al giorno d'oggi sia possibile "conquistarsi " uno spazio (per quanto esiguo ed illusorio) di visibilità solo mediante oboli, pedaggi e conoscenze altolocate, a prescindere dalla qualità o dalla più o meno conclamata meritorietà del proprio lavoro.

Il fatto che lei non condivida il mio punto di vista, non rende nullo o di basso spessore il mio "parere in merito" nè la mia coerente avversione a questa "visione mercenaria" della società e dell'arte in genere.

Ricambio cordialmente i suoi auguri (con la certezza che quegli "artisti" di cui le parlavo non fossero davvero animati da "fame creativa" ma da sete di "fama dissociativa").

 

Saturday, November 25, 2017

MALORDA: Intermondana


MALORDA: Intermondana 


Nonostante sia stato interrotto nel bel mezzo di una "chiamata intermondana" con un vecchio amico "chef pluristellato", il Dottor Malorda cerca di venire incontro alle richieste di una cliente reduce da un pruriginoso equivoco che le è appena costato il posto di lavoro. 

 Scritto, diretto, montato, interpretato e prodotto da Alessandro Fantini 

Musiche di Alessandro Fantini 

Citazioni dal "Paradiso Perduto" di John Milton e la "Divina Commedia" di Dante. 

 Alessandro Fantini è il Dottor Famedio Malorda, il sulfureo esteta dagli oscuri legami di potere a metà tra Lord Brummel e un Ludovico II in acido, protagonista del web-serial in cui tutti i tentativi di scampare al disordine di un sistema senza regole e certezze sono destinati a scontrarsi con la salvifica quanto spietata legislazione del caos.



Saturday, November 4, 2017

Di edonisti e pescegatti nipponici: EDOnism in concorso al Selva Nera film festival di Padova

 

Il giorno fatidico è alfine giunto. 

Questa sera alle 22:40 "EDOnism" verrà proiettato nella sezione concorso della prima edizione del "Selva Nera" fantastic film festival di Selvazzano Dentro, Padova, prima rassegna internazionale del cinema fantastico del Veneto. Un sentito ringraziamento agli audaci e lungimiranti organizzatori Massimo Bezzati e Stefano Bovi, allo staff dell'Arena Games che ospita il festival e a tutti gli "edonisti" che stasera avranno l'occasione di rivivere i fremiti tellurici della grande mente nascosta sotto la coltre di cemento e fibra ottica di Honshu. Grazie anche alla redazione di CinemaItaliano.info per aver dato risalto all'evento.

 Quattro anni dopo essere emigrato a Tokyo insieme alla moglie Sophie, l'esistenza del manager James Hallway è ormai ridotta ad una sequela di sbornie e fallimenti. Alla perdita del lavoro farà seguito di lì a poco quella di Sophie, decisa a rifarsi una vita lontano dalla spirale di autolesionismo che sta risucchiando James. Ma quando dietro il tessuto della realtà cominceranno a balenare visioni che nulla hanno a che fare con le crisi etiliche, ed un coma lo trascinerà in un oblio temporaneo, la verità di una seconda esistenza adombrata dal mito nipponico del Jishin Namazu, il Pesce Gatto che scatena i terremoti, comincerà lentamente a prendere il sopravvento sulla sua quotidianità. Una verità che il suo sisma interiore farà presto condividere a milioni di cittadini.

 
Ambizioso fanta-noir dalle suggestioni “bladerunneriane” girato nella capitale nipponica, nonché secondo capitolo della trilogia de “Le Città della Mente Nascosta” preceduto da “Nepente” ambientato a Roma e seguito da “New York, a venture” filmato a Manhattan (proiettato al “Dobbs Ferry film festival” di New York lo scorso febbraio), “EDOnism” nasce da un’idea di Alessandro Fantini, regista, pittore, scrittore e compositore originario di Atessa, che all’indomani del terremoto dell’Aquila decide di trasporre il motivo del sisma, inteso come tumulto emotivo e relazione misterica tra macrocosmo terrestre e microcosmo umano, in una storia per il grande schermo ambientata in Giappone, terra dove tecnologia, leggende e misteri tellurici offrono lo scenario ideale per imbastire una vicenda sospesa tra realtà e allegoria metafisica. Perché, sebbene l’ispirazione di fondo derivi dall’urgenza di elaborare in chiave artistica lo sgomento provato di fronte alle catastrofi naturali che hanno martoriato l’Abruzzo e il centro Italia, il tema del sisma nel corso del film assume contorni sociologici e proporzioni cosmiche, fino a divenire archetipo metaforico di quell’enigma atavico che lega la specie umana alla terra e all’universo.

 

 Le riprese del film dirette da Alessandro Fantini con la collaborazione del coproduttore Lorenzo Fantini, il line producer Miles Elliott e Lucy King, si sono svolte a Tokyo nell’arco di due settimane nelle location dei quartieri centrali di Tokyo quali Shibuya, Minato, Roppongi, nei pressi del Santuario Meiji nel parco Yoyogi, e infine sull’isola di Odaiba dominata da una replica della Statua della Libertà e dall’avveniristica sede della Fuji Film progettata da Kenzo Tange che hanno fornito l’imponente scenografia alla sequenza del cliffhanger finale.

Per “EDOnism”, una sorta di colossal “low budget” ispirato tra gli altri da anime giapponesi come “Akira” e “Ghost in the shell”, e al quale ha preso parte un cast di attori e comparse provenienti da Giappone, USA, Inghilterra, Australia, Svezia e Svizzera, Fantini ha anche creato tre locandine dipinte e disegnate a mano, realizzato lo storyboard, una sequenza animata, composto la colonna sonora originale e interpretato il ruolo di un agente infiltrato.

Friday, November 3, 2017

Perchè scrivere ancora romanzi nel 2017?



 Perchè scrivere ancora romanzi nel 2017?



Perché scrivere un romanzo nel 2017?

In un’epoca di consumo compulsivo di frammenti di video e testi, forse quella del romanzo resta la forma espressiva, insieme ai serial tv, in grado di convincere una persona ad immergersi per più ore di fila in un flusso spaziotemporale di pura fantasia, invitandola a contribuire all‘evocazione di un mondo narrativo ed emotivo che non svilisca ma esalti la sua immaginazione e la sua sensibilità. Trovo che la sua articolata irrealtà sia un ottimo antidoto alla caotica pseudo-realtà della rete.

A cosa allude il titolo “Balia Bufera”?

Ancor prima di cominciare a scrivere avevo in mente un paio di titoli che alludevano alla neve, al tema della prima infanzia e alle tormente. Dopo aver scritto il primo capitolo e aver definito con esattezza l’intreccio, mi resi conto che la personificazione della Bufera assimilata ad una balia che nutre e protegge una nuova vita esplicava in due parole, in senso tanto metaforico quanto letterale, i concetti su cui ruotava l’intera vicenda.


Chi sono i protagonisti del romanzo?

La storia viene narrata in prima persona da Patrizio, ventenne insicuro cresciuto dagli zii materni dall’età di tre anni, quando la madre decise di rifarsi una famiglia all’estero, traumatizzata dalla fuga del padre avvenuta pochi mesi prima della sua nascita. Patrizio non ha mai creduto fino in fondo alla versione dello zio Leonida, a detta del quale il padre si era sottratto alle sue responsabilità di genitore, mentre la madre s’era già invaghita di un altro quand’era incinta. Privo di punti di riferimento e di veri amici, una volta diplomato Patrizio s’illude di poter cambiare vita iscrivendosi ad un corso di ingegneria informatica. Ma l’impossibilità di pagarsi gli studi lo spinge quasi per caso ad unirsi a Tonio e Fabiano, due giovani ladruncoli per i cui furti si presterà a fare da palo nella convinzione di racimolare i fondi necessari a finanziare il corso. Il brivido della vita criminale lo porterà tuttavia a perdere il contatto con la realtà. Così Patrizio prenderà coscienza della sua alienazione solo al momento di finire in carcere e in seguito in una casa famiglia isolata su un altipiano. Un luogo reso ancor più misterioso dalla vicinanza a Monte Crura, un borgo all’apparenza disabitato dove incontrerà una ragazza a sua volta confinata in una prigione fisica e mentale.

Si tratta di un thriller, un fantasy, o di una favola per adulti?

Non inizio mai a scrivere cercando di restare dentro il recinto di un genere o pensando all’età ideale dei lettori. Di solito pianifico un romanzo solo quando ho raccolto una serie di immagini e di idee dalla cui associazione sia possibile ricavare un’atmosfera e una tensione tali da tenermi incollato alla tastiera alla stessa maniera in cui sono convinto il lettore possa restare catturato dal libro finito.

Chi sono gli autori e i luoghi che hanno influenzato il romanzo?




Oltre ai ricordi d’infanzia dell’altipiano innevato di Quarto Santa Chiara in Abruzzo, le prime immagini che mi hanno spronato a scrivere “Balia Bufera” sono state le illustrazioni dell’olandese Rien Poortvliet, l’autore della celebre serie di libri sugli Gnomi. Ho sempre pensato che quelle visioni potessero esprimere una qualità drammatica e fatidica se calati in un contesto realistico e familiare come quello dell’inverno dell’appennino abruzzese, e ancor di più se sovrapposti alle suggestioni dei racconti di un autore gotico come Arthur Machen, il cui racconto “il popolo Bianco” ha rappresentato un importante fonte d’ispirazione per il romanzo.

La storia di Balia Bufera è limitata alla forma letteraria?

La storia di Patrizio, della casa famiglia di Santa Pelva, di Monte Crura e dei suoi enigmatici abitanti è l’estuario finale di un ampio numero di affluenti visivi e letterari, quindi non è affatto escluso che possa estendersi o proseguire in altri codici artistici, primo tra tutti quello cinematografico. In simultanea alla scrittura del romanzo ho infatti realizzato una sceneggiatura ideata in funzione delle locations di Pescostanzo e dell’altipiano di Quarto Santa Chiara, un metodo che mi ha permesso sia di consolidare il realismo del romanzo che di porre le basi per una seconda vita dell’opera. Che è poi uno dei significati nascosti nel titolo e nella trama del romanzo. Perché ad ognuno spetta una seconda opportunità dopo esser stati in balìa della bufera.


Tuesday, October 31, 2017

Cloverfield - Rigurgiti iconogastrici

CLOVERFIELD

RIGURGITI ICONOGASTRICI

recensione di Alessandro Fantini 

 

   


    Fedele ai dogmi del “meticciato” linguistico applicati nel rodatissimo e altrettanto logoro "Lost" (survival-tv movie di matrice seriale che deve gran parte del proprio successo all’astuto abbattimento dei confini tra cinema, docu-fiction e reality),  questo “Cloverfield”, ennesima "creatura" cinematografica del produttore J.J.Abrams diretta da Matt Reeves, mira tuttavia a compiere il percorso inverso attingendo stavolta dal lessico di quel vernacolo mediatico che negli ultimi quindici anni ha metabolizzato il codice espressivo del reportage televisivo nella "liofilizzazione" amatoriale dei video girati da camcorder e telefonini "sversati" sulla rete, per trasferirne il prodotto finale sul grande schermo ingigantito ed esasperato dai “mirabilia” degli effetti speciali. Non solo negli interminabili ed angosciosi piani sequenza peristaltici della televisione post "11 settembre" va ricercato l'elemento di maggior seduzione del progetto, quanto piuttosto nell'astuzia citazionistica, già ricodificata dal “bullet time” di “Matrix” e dilapidata nella penosa conversione cinematografica dello sparatutto in prima persona di “Doom”, di quelle nuove modalità di fruizione interattiva di cui la dimensione videoludica deflagrata con la pandemia delle consoles ha testimoniato l'ineludibile fascinazione.
 Ecco quindi che i riferimenti apparenti allo stentato “Blair Witch Project” di Myrick e Sanchez appaiono pretestuosi e surrettizi nella misura in cui la parentela putativa di Cloverfield si limita al recupero dell'espediente narrativo del casuale recupero dei videotapes degli scomparsi (deformazione stilistica sopravvissuta fino ai nostri giorni con la serie “REC” e il più recente “VHS”), e sulla ripresa su larga scala del viral maketing inoculato via web che all'epoca ne aveva amplificato immeritatamente le proprietà rivoluzionarie nell'assegnazione del principio di realtà a materiali grezzamente fittizi (strategia di depistaggio testata sin dai tempi di “The Texas Chainsaw Massacre” del 1974, opera low-budget spacciata per ricostruzione documentaria di efferati delitti realmente accaduti, sebbene in verità liberamente ispirata alle gesta necrofiliche di Ed Gein).
Più stimolante e provocatorio sarebbe invece l'accostamento con gli esiti radicalmente opposti del "perpetuo maremoto" ottenuto dalla tecnica della camera in spalla portata al suo acme ne "Le Onde del Destino" di Lars Von Trier.
Poco o nulla c'importa del mastodontico umanoide rettiliforme e anfibio che, senza alcun evidente motivo, scatena la sua furia da elefante impazzito tra i pinnacoli di vetro e cemento di una Manhattan notturna fotografata come la città morta di un incubo al neon. Né tanto meno c'interessa parteggiare o partecipare del terrore simulato con approssimazione da situation comedy che muove l'erratica fuga dei ragazzi “demi-monde” che, fin dal risibile pseudo-reality dei venti minuti introduttivi, sfilano davanti all'operatore professionalmente incompetente senza conferire alcun guizzo di personalità ad un'irritante bidimensionalità che li renderà simpatici solo al momento di essere spazzati via dal cataclisma liberatorio che investe la città. Quel che decuplica e confonde le reazioni dello spettatore, continuamente oblique tra nausea, vomito, noia, tensione, perplessità, apprensione, curiosità infantile, è piuttosto la maniacale opera di celebrazione del pretesto visivo che sposta sistematicamente il fuoco della persuasione dal campo della verosimiglianza dei personaggi e della trama, a quella della grammatica estetica spinta a vertici mai raggiunti fino ad allora dal medium audiovisivo.


Basteranno difatti la defezione assoluta del commento musicale a favore di una raggelante sinfonia di urla, sibili e suoni ambientali che contribuisce all'immersività soggettivizzante della visione (proprio come accade in videogiochi quali "Silent Hill 2", "Doom 3" e soprattutto “Amnesia: The Dark Descent”), spiazzando il cinefilo abituato ad accettare l'astrazione di quel coefficiente espressivo di carattere extradiegetico che per convenzione conferirebbe all'opera la sua rassicurante omogeneità artistica; la soluzione tanto ingenua quanto riuscita di ricorrere ad un “flash back” intenzionalmente involontario presentando l'intero filmato come il risultato di un maldestro montaggio in camera compiuto sovrascrivendo per errore un nastro sul quale la coppia di amanti aveva filmato una giornata di melense idillio amoroso (nei cui fotogrammi superstiti si annidano dei “clues", indizi criptati che alludono alle origini della creatura come in un gioco d'avventura); la destrezza del reparto addetto al CGI che fa dell'audace smania di fotorealismo la struttura portante dell'intero progetto, misurandosi con i ripetuti fuori fuoco del settaggio automatico della telecamera modello consumer ad alta definizione che imprime un drammatico tono da reportage di guerra alle prime esplosioni che squarciano la “skyline” di Manhattan e al lancio della testa della Statua della Libertà rotolante tra le macchine parcheggiate in strada (citazione stucchevole ma visivamente efficace dalla locandina del carpenteriano “1997: Fuga da New York”).
Basteranno tutti questi minuziosi congegni stilistici dissimulati (e dissimulanti) sparsi lungo i settanta minuti del lungometraggio, a rendere trascurabile l'ennesimo trafugamento di quegli stilemi archetipizzati dalle saghe di “Alien”, “Predator”, dei disaster movies come “Trappola di cristallo”, “Deep Impact”, “The Day After Tomorrow” e da quella imprescindibile di “Godzilla” della quale si propone di essere il contraltare mitologico in chiave americana.
Sebbene non si tratti dello spazio siderale in cui fluttua la Nostromo di Ripley, ma della più “iconografizzata” metropoli del pianeta, anche in questo caso nessuno potrà “sentirvi urlare”. Specie se per pochi istanti condividerete la visita alle fauci del ciclopico intruso prima che quest'ultimo sputi videocamera ed operatore in un impulso di geniale deiezione mediatica. Forse la più efficace allegoria di un'epoca che ingoia e vomita le immagini ancor prima di digerirle, trattenendo solo quel tanto necessario ad alimentare il diafano terrore che per loro natura i mass media continueranno a inoculare nell'immaginario collettivo.